La musica come rivoluzione personale

La musica strumentale milanese nasce in un periodo ricco di nuovi ideali, e di questi ideali porta inevitabilmente il segno. A cambiare non è soltanto il pubblico a cui la musica si rivolge; cambia il concetto stesso di gruppo strumentale, cambiano le modalità di ingaggio dei musicisti e il ruolo del singolo musicista all’interno della compagine. Possiamo addirittura affermare che l’idea stessa di “Orchestra” nasca proprio in questa fase di cambiamenti radicali.

Le partiture dei compositori milanesi del primo settecento sono talmente impregnate di questi contenuti che, affrontandole, non si può fare a meno di confrontarsi “integralmente” con le conseguenze che tali contenuti portano.

Uno dei primi effetti con cui gli esecutori dovettero confrontarsi già all’epoca era una sorta di “alienazione” dell’individuo che l’idea stessa di orchestra portava inevitabilmente con sé. Se, infatti, l’Orchestra si fonda su quegli ideali di uguaglianza, di fratellanza e di libertà che cominciavano ad affermarsi presso la borghesia, dall’altra parte, per la sua stessa struttura, l’orchestra tende a incatenare e a soffocare l’individualità del musicista.

L’Orchestra, lo sanno bene i moderni strumentisti, è un’utopia, così come lo era la Rivoluzione Francese. Gli ideali di fratellanza e di uguaglianza diventano qui, spesso, il pretesto che consente ad un direttore “tiranno” di affossare completamente l’iniziativa personale. E, d’altra parte, va ammesso che tale iniziativa costituisce il più delle volte un danno per la riuscita dell’esecuzione. Chiunque abbia suonato più di un mese nella stessa orchestra ha vissuto sulla propria pelle questa dolorosa realtà.

Il cammino che ho fatto con i musicisti di Atalanta Fugiens è stato una preziosa occasione per vivere, in maniera tutt’altro che astratta o intellettuale, la profonda dicotomia che vigeva sull’Europa della prima metà del settecento. Io e tutti i miei collaboratori proveniamo, infatti, da anni di lavoro sulla prassi esecutiva barocca, tutti abbiamo collaborato con importanti gruppi barocchi come “Il Giardino Armonico”, “L’Europa Galante”, “L’Accademia Bizantina”, “I Barocchisti”, ecc. Tutti sappiamo per averlo vissuto personalmente, quanto, nell’eseguire musica barocca, sia importante l’iniziativa, l’improvvisazione, l’estro. Il grande salto verso gli strumenti e il repertorio cosiddetto classico è stata per tutti noi l’occasione per rivivere, come nessun libro di storia può far rivivere, la rivoluzione culturale che l’invasione asburgica portò a Milano, in tutti i suoi aspetti, belli e brutti. Dover constatare che, improvvisamente, l’aggiunta di un trillo o di una diminuzione (serie di note improvvisate su una melodia) non solo non abbelliscono più la linea, ma possono disturbare la percezione del discorso globale, e constatare che questo avviene perché non c’è più una linea da abbellire, ma una struttura “architettonica” (costituita da linee) da mettere in risalto attraverso la purezza, l’eleganza e lo slancio dell’esecuzione: questa è la grande rivoluzione che un musicista vive passando da Bianchi a Brioschi, da Corelli a Chelleri, da Cima a Sammartini; ed è una rivoluzione che, per qualche ineffabile motivo, ha a che fare con il vissuto sociale di quegli anni. Tuttavia realizzare che il proprio apporto può risultare inutile o addirittura dannoso se non si conforma continuamente la propria identità a quella dei vicini di leggio, può essere, per alcuni, un duro colpo, e sono sicuro che sia stato un duro colpo anche per molti dei nostri antenati musicisti. Per questo, per almeno un paio di decenni, nel ‘700 (diciamo tra il ’30 e il ’50), l’Europa si divideva in maniera abbastanza netta tra chi accettava e promulgava la nuova musica e chi difendeva la concezione arcaica (che solo dopo avremmo chiamato “barocca”). Gli uni trovavano gli altri puerili, mentre, nella direzione opposta, serpeggiava l’accusa di intellettualismo sterile o, per dirla con parole moderne, di “onanismo mentale”. Questo naturalmente non impediva a personaggi eclettici come il parmigiano Fortunato Chelleri (classe 1689!) di saltare con disinvoltura da un lato all’altro del muro.

I motivi sopra esposti sono, secondo me, sufficienti a spiegare il perché musicisti che fino a ieri si sono cimentati solo con Bach e Vivaldi, spesso non riescano a rendere giustizia alle partiture mozartiane che, con sempre maggior pressione, i direttori artistici li spingono ad eseguire. Non sempre, infatti, basta leggere la musica e interpretarla “secondo la propria sensibilità”; a volte occorre vivere delle vere e proprie rivoluzioni biografiche di cui la musica si fa continuamente veicolo. 

Dilemma non risoluto

(Estratto dal Booklet del VI volume di Archivio della Sinfonia Milanese, dedicato a Paasquale Ricci)

È incredibile quante cose possano dirci opere dell’ingegno di uomini vissuti oltre 200 anni fa. Studiando le Sinfonie di Pasquale Ricci, compositore comasco vissuto tra il 1732 e il 1817, mi sono reso conto più che mai di quanto una semplificazione radicale e coraggiosa, quasi provocatoria, del linguaggio musicale possa farci accedere a piani della percezione affatto diversi da quelli vissuti di fronte alla sontuosa complessità di alcune opere tardo barocche. La musica può presentarsi veramente sotto tanti aspetti, ma il fatto che tutti questi rientrino nella stessa categoria (“Musica”) non deve trattenerci dal considerare i brani barocchi di Bach e Händel oggetti sostanzialmente diversi dai brani di un Ricci o di uno Zappa, così come lo sono oggi le opere di Ligeti da quelle, che so, dei Dream Theater.

E’ troppo facile allinearsi agli irriducibili avversari della cosiddetta musica “Galante” asserendo che la musica di Ricci e quella di Bach sono “oggetti sostanzialmente diversi” perché Bach sapeva scrivere mentre i primi sinfonisti italiani, no. In fondo lo disse anche Haydn che “Sammartini era un Imbrattacarte”, e Leopold Mozart tacciò Ricci e Zappa di essere “luci minori” del panorama musicale europeo.  Perché dunque sporcarsi le mani con un capitolo della storia musicale scritto da dilettanti?

E’ vero, non c’è dubbio: alcuni dei compositori di musica strumentale milanese che aprirono la stagione della Sinfonia (e, se vogliamo, del cosiddetto “classicismo musicale”) erano dilettanti, altri erano giovani intraprendenti e virtuosi strumentisti animati da una grande voglia di cambiare il mondo. Il Ducato di Milano, prima di loro, era dominato dagli spagnoli. Si sa poco della musica strumentale di questo periodo, ma la straordinaria quantità di testimonianze connesse alla musica liturgica unita al fatto che i primi approcci a forme di musica strumentale sganciata dal teatro e dalla liturgia, negli anni a cavallo tra XVII e XVIII sec. portino comunque spesso l’indicazione “Da Chiesa” (Sinfonie da Chiesa o Concerti da Chiesa), ci fa pensare che il potere della curia non vedesse di buon grado l’avvento di una musica “libera”, sganciata da un testo teatrale o da un programma liturgico. Qualcosa cambiò con l’arrivo degli austriaci. L’economia crebbe insieme al potere contrattuale della classe borghese. La vita musicale e culturale scoprì nuovi ambiti in cui crescere e fiorire. I giovani trovarono nuovi spazi e motivazioni per esprimersi. Se vediamo nel “dilettantismo” dei milanesi del primo settecento una fase necessaria alla nascita di una nuova scuola compositiva, le cose ci appariranno sotto una prospettiva del tutto diversa; e se vediamo nella schiettezza lapidaria delle partiture strumentali milanesi un atto di sublime provocazione che andava di pari passo con una straordinaria liberazione dei costumi simile a quella vissuta in Europa negli anni ’60, ci renderemo conto di quanto sia importante trovare, per queste partiture, una chiave di lettura che ne esalti l’aspetto provocatorio e rivoluzionario; definirle semplicemente “Galanti” o “Rococò” non è solo fuorviante, ma sbagliato, perché ne limita spaventosamente l’orizzonte interpretativo.

Le Sinfonie Op.2 furono pubblicate nel 1766 ad Amsterdam, dove Ricci si trovava da un paio d’anni, attratto dalle attenzioni delle corti, degli editori e del pubblico olandese. Come anche le sei di Chelleri e le sei di Zappa pubblicate in questa stessa raccolta, si tratta di brani, seppur indipendenti, legati da un sottile filo conduttore che ci offre lo spunto per considerarle un’opera unica, eseguibile tutta di un fiato. Ce lo suggerisce il percorso tonale che si snoda tra una sinfonia e l’altra privilegiando i rapporti di quarta ascendente secondo il seguente schema (dove “S” sta per Sinfonia) S1:re---S2:sol---S3:do / S4:sib---S5:mib / S6:sol. Come è noto il rapporto di quarta ascendente è quello che unisce due tonalità con la massima affinità tonale e dà alla sinfonia che segue, un aspetto risolutivo e “necessario” nei confronti di quella che precede (cosa che peraltro accade, su scala ridotta, nella cosiddetta cadenza perfetta tra “dominante” e “tonica”). Notiamo dunque che le prime tre sinfonie sono strettamente concatenate tra loro e sono anche le tre sinfonie “classiche” della raccolta. Quarta quinta e sesta sono invece sinfonie più inusuali o sperimentali, e, in un esecuzione integrale, ben si noterebbe questa discontinuità tra la terza e la quarta sinfonia esaltata anche dal rapporto tonale di seconda discendente (rapporto che dà al brano che succede un che di maestoso e di ponderato rispetto a quello che precede). La quarta, infatti, è una sorta di sinfonia concertante con uno sviluppo temporale decisamente superiore alle precedenti e con ampie sezioni di solo di violino. La quinta poi si articola in due soli ampi movimenti, il cui primo è sicuramente il più complesso e articolato dell’intera raccolta, mentre la sesta, e ultima, consta di tre brevi movimenti da suonarsi senza soluzione di continuità, che, tutti insieme, superano a malapena la durata del primo movimento della prima sinfonia. Altro segno rivelatore del carattere unitario di questa Op.2 è proprio l’indicazione che troviamo sull’intestazione della sesta sinfonia: “Finale”. Se quest’ultimo brano è un finale (e la notevole brevità suggerisce proprio che lo sia) è evidente che deve essere il finale di qualcosa che precede. Se poi guardiamo alle prime misure della prima sinfonia possiamo intuire si tratti di una sorta di ouverture che apre l’intera raccolta (il cui carattere può vagamente ricordare l’esordio delle “Nozze di Figaro” di Mozart).

Nelle sei sinfonie Op.2 di Pasquale Ricci troviamo dunque un’opera unitaria, con un’Ouverture e un Finale. Tale opera è chiaramente divisa in due sezioni, la prima delle quali consta di tre sinfonie convenzionali (per quegli anni), mentre la seconda sviluppa ed esplora nuove possibilità aggiungendo uno strumento solista (quarta), ampliando la forma e riducendo il numero dei movimenti (quinta) o riducendo al massimo la forma e collegando i movimenti tra loro in un unico conciso respiro dal carattere di Finale (sesta).

Ma Ricci non si accontenta di presentare alle stampe una raccolta di sinfonie che esplorano diversi ambiti formali e stilistici del suo ambiente culturale. Come altri artisti prima di lui si sono divertiti a fare, pone nel cuore della prima parte della raccolta, l’Andante della seconda sinfonia, un misterioso enigma per i posteri; una sorta di cerca trova, o un indovinello, se preferite. Su tutte le parti strumentali compare all’inizio del brano la scritta “Dilemma”, mentre sulla sola parte dei bassi la frase appare completa: “Dilemma non risoluto”. Noi non siamo riusciti a risolverlo. A voi l’ardire.

In viaggio con Mozart da Milano a Torino

(Intervista rilasciata nel 2014 alla rivista Amadeus)

1) Da Milano a Torino: oggi sappiamo o possiamo immaginare cosa vide e ascoltò il giovane Mozart in viaggio tra le due grandi città del nord Italia?

Milano e Torino erano città dalla vita musicale molto ricca. Soprattutto a Milano si potevano ascoltare opere di compositori provenienti da tutta Europa e nelle Accademie, alle quali partecipavano i personaggi più influenti della politica e della cultura, il dibattito su questioni stilistiche, filosofiche, spirituali, era sempre acceso e stimolante.

Leopold e Wolfgang, nel 1770, si immersero nella vita culturale milanese; strinsero amicizie e legami lavorativi, ottennero generosi tributi di stima e, in alcuni casi, scatenarono le gelosie di altri musicisti. Da una lettera di Leopold apprendiamo che, in occasione della rappresentazione del Mitridate Re di Ponto, un non precisato compositore tentò di convincere la prima donna a sostituire le arie di Mozart con quelle di Quirino Gasparini (che l’anno prima fece rappresentare il suo Mitridate) argomentando con l’inesperienza e con lo stile troppo “tedesco” del ragazzo.

Durante la preparazione del Mitridate, Mozart lavorò fianco a fianco con Melchiorre Chiesa e con Giovanni Battista Lampugnani, compositori le cui opere Leopold conosceva già da tempo. In questa occasione ebbe sicuramente proficui scambi.

Nello stesso anno incontrò il settantenne Sammartini, dedito al genere della sinfonia dagli anni ’20 (ben prima che nascesse Haydn).

I Mozart arrivarono a Torino appena in tempo per ascoltare l’”Annibale in Torino” di Giovanni Paisiello, compositore che conobbero a Napoli l’anno prima. Qui il ragazzo poté stringere la mano a quel Gasparini il cui “Mitridate Re di Ponto” fu surclassato dal suo, un mese prima a Milano. Ma l’incontro forse più importante fu quello con Gaetano Pugnani, violinista virtuoso, direttore d’orchestra, compositore di tutto rispetto.

Le lettere che Leopold e Wolfgang scrissero alle parenti rimaste in Austria, ci confermano che non si risparmiarono; la loro vita era fitta di impegni, a tratti estenuante.

2) Milano e Torino: quali erano le affinità e le differenze che si possono individuare nel panorama musicale settecentesco?

Erano due importanti capitali della musica strumentale e potevano vantare alcune delle migliori orchestre d’Italia, nonché i più grandi e prestigiosi teatri d’opera: il Teatro Regio Ducale di Milano e il Teatro Regio di Torino.

Il panorama torinese era dominato dalle figure di G.B. Somis, F. Giardini, G. Pugnani e poco più tardi G. B. Viotti. Erano violinisti virtuosi che diedero un particolare impulso alla scuola violinistica con la composizione di sonate, concerti e musica da camera. La Sinfonia strumentale si smarcò abbastanza tardi dal suo ruolo iniziale di ouverture d’opera.

A Milano, invece, fin dagli inizi del secolo, i dominatori austriaci avevano favorito la formazione di orchestre sempre più grandi per realizzare concerti pubblici al fine di acquistare consenso popolare. Già a partire dagli anni ’20, nacque una scuola sinfonica che vide dominare prima le figure di G. B. Sammartini, A. Brioschi, F. Galimberti e successivamente di M. Chiesa, G. B. Lampugnani, F. Zappa e C. Monza.

3) Nel cd allegato ad Amadeus è raccolta una selezione di sinfonie: come avete scelto gli autori e i brani che ci presentate qui?

Il Mitridate è l’opera di Mozart che meglio rappresenta il suo viaggio da Milano a Torino. Scritta su libretto di un torinese, musicata in precedenza dal torinese adottivo Gasparini, fu rappresentata a Milano e gli valse una raccomandazione del conte Firmian per ottenere commissioni nella città Sabauda.

Nel 1771, anno della visita dei Mozart, Pugnani era appena tornato a Torino dopo un viaggio londinese che gli aveva regalato grande fama. L’orchestra del Teatro Regio, sotto la sua guida, era una delle migliori d’Europa. La sinfonia presente nel disco, seppur scritta successivamente esprime bene lo stile delle opere che si potevano ascoltare a Torino negli anni ’70.

Johann Christian Bach conobbe il piccolo Mozart a Londra. Tra i due nacque un sincero affetto. La sinfonia che abbiamo scelto, appare per la prima volta in una pubblicazione londinese del 1765. Il compositore aveva abbandonato Milano da un paio d’anni; tuttavia, osservando lo stile, possiamo considerarla un lavoro in stile milanese. Tra l’altro le sue opere furono rappresentate a Milano per almeno una decina di anni dopo il suo trasferimento a Londra.

Le sinfonie di Zappa e di Zingarelli descrivono lo stile di una Milano dei primi anni '80 e risentono, probabilmente, dell’influsso di ritorno dell’ormai famoso Mozart.

La sinfonia n. 5 in sol minore di Zingarelli, in particolare, rappresenta bene la nuova poetica dello Sturm und Drang. E’ interessante la scelta della tonalità di sol minore - particolarmente eufonica, se suonata nelle accordature in auge all’epoca - che accomuna Zingarelli a Mozart e a Christian Bach.

4) È stato effettuato un lavoro di ricerca musicologica su questi brani? In questa incisione sono presenti prime esecuzioni?

I lavori di ricerca su Zappa e Zingarelli, culminati nella pubblicazione dei volumi in edizione critica pubblicati da Ricordi, sono stati svolti dai nostri collaboratori Jacopo Franzoni e Davide Daolmi. Per gli altri brani ci siamo avvalsi degli studi di altri musicologi.

5) Quali sono le caratteristiche formali e sonore di questi brani e quale connotazione esecutiva avete voluto dare a questo repertorio?

Assistiamo qui al circoscriversi di quei tratti che ben presto definiranno la “Forma Sonata”. Ovviamente non dobbiamo far l’errore di leggere la storia col senno di poi. Queste sono opere complete e mature, e quando osserviamo che in un certo movimento “manca lo sviluppo” stiamo ricorrendo ad una semplificazione, giusto per intenderci con il lettore; in realtà non “manca” proprio niente: L’opera è perfetta così.

Si tratta di opere armonicamente semplici, il cui “valore” va cercato soprattutto nello slancio, nella chiarezza del messaggio, nella pulizia sonora e nella lapidaria enunciazione delle frasi.

6) Questo cd è stato inciso live nell'affascinante cornice della Chiesa di Sant'Uberto della Reggia di Venaria Reale: quale fu l'occasione? Si tratta di un luogo con peculiarità acustiche particolari?

Il CD è stato registrato per iniziativa della Azimut. Il luogo di registrazione doveva rispondere a diversi requisiti: acustica, possibilità di ospitare un folto pubblico, presenza di saloni di rappresentanza per gli ospiti. La chiesa di Sant’Uberto presentava un buon mix di questi tre fattori.

7) Il suo ensemble Atalanta Fugiens si dedica con passione a questo tipo di repertorio: ci racconta qualche iniziativa simile che avete intrapreso in passato?

Con la collana Archivio della Sinfonia Milanese ci occupiamo da ormai dieci anni della registrazione di sinfonie milanesi del XVIII secolo. Siamo arrivati al VII volume con compositori come Antonio Brioschi, Fortunato Chelleri, Niccolò Zingarelli, Francesco Zappa, Pasquale Ricci…

8) Quali sono i vostri progetti futuri?

L’anno prossimo registreremo un volume dedicato ad Alessandro Rolla, il compositore che per primo studiò e diffuse la musica di Mozart e di Beethoven a Milano. E’ prevista inoltre la ripresa dello spettacolo Zappa’s Revenge, una sorta di musical con musica di Frank e Francesco Zappa, che esplora il misterioso legame tra i due.

Guida all'ascolto di Brioschi

(per la rivista Amadeus 2012)

Nell'affrontare come interprete, studioso, o anche come ascoltatore il repertorio musicale milanese del secondo quarto del settecento, ci troviamo di fronte ad alcune difficoltà o addirittura paradossi, che si manifestano su almeno tre piani: interpretativo, storico filologico e terminologico.

Sul piano interpretativo il problema nasce perché a tutt’oggi non esiste ancora una prassi esecutiva consolidata per questo repertorio. Esso soffre del fatto di stare a metà del guado tra il barocco e la grande epopea classica di fine secolo. Se negli ultimi anni la prassi esecutiva barocca e quella della fase matura del classicismo hanno conosciuto un grande sviluppo e approfondimento, non si può dir lo stesso per il repertorio “di mezzo”. Il fatto che questi venga spesso affrontato con modalità interpretative di ispirazione post-barocca, e quindi infarcito di abbellimenti, cadenze ed effetti timbrici, non fa che impedirne la percezione dello slancio formale, del gioco delle proporzioni e la raffinatezza del tessuto poliritmico delle parti, che ne costituiscono, forse, il principale valore aggiunto. L’esito non è però migliore quando lo si affronti con criteri interpretativi troppo “moderni”, dilatando a dismisura i tempi metronomici dei secondi movimenti, privando le linee della ricchezza di articolazione e della sinuosità che ne costituiscono la linfa, conferendo troppo valore alla verticalità, all’armonia, al “peso specifico” del timbro orchestrale, a discapito della leggerezza e dello slancio. Insomma: accostandoci a Brioschi e ai suoi coevi milanesi siamo costretti a confrontarci con questioni pratico musicali che mettono in crisi molte nostre convinzioni e pregiudizi circa la musica “antica”, pena il malinteso di considerarli compositori “minori”. Ma l’occasione è proprio questa: mettendoci in discussione come interpreti, ponendoci le domande giuste, ci troveremo nei panni degli esecutori dell’epoca, che per capire e suonare questa musica dovevano anzitutto coglierne l’aspetto innovativo e provocatorio.

Sotto l’aspetto storico filologico si riuniscono tutti i problemi connessi con le attribuzioni, con i cataloghi incompleti o incoerenti, con le personalità evanescenti, dubbie o prive di riscontri. Il caso di Antonio Brioschi è emblematico, infatti fino al ritrovamento (da parte della liutaia Valentina Montanucci) di una lettera in cui veniva esplicitamente citato, l’unica prova della sua esistenza era data dai numerosissimi manoscritti delle sue sinfonie, nessuno dei quali, però, è autografo. Le fonti attestavano oltre 90 sinfonie, ma più di trenta sono risultate essere false attribuzioni. Il suo nome sui manoscritti era, inoltre, riportato in ben sedici varianti o storpiature, tra cui il sovietico Brioskij, il gastronomico Brioshe e l’enigmatico Priorchi. Le discrepanze tra le fonti a volte arrivano a interessare l’estensione dei movimenti: vi è, ad esempio, una sinfonia che in una fonte è più lunga di 24 battute rispetto alle altre; 24 battute che incidono in maniera determinante sul respiro formale dell’opera (cfr. Sarah Mandel, 2010, Issues of authenticity in 18th-century sources of symphonies, in Antonio Brioschi e il nuovo stile musicale del Settecento lombardo, Edizioni LED). Progettare una raccolta o un’edizione di sinfonie di Brioschi può rappresentare dunque una sfida anche sul piano filologico.

Le difficoltà più perniciose, però, sono sicuramente quelle sul piano terminologico. Ritengo che qualunque discussione, descrizione o critica non possa prescindere da convenzioni terminologiche sulle quali ci sia un accordo comune. Nel caso della musica strumentale in questione manca addirittura un termine che ne definisca lo stile, non parliamo del lessico formale (per cui si prende spesso a prestito la trattatistica di fine ottocento). Se il repertorio Barocco ha goduto di grande attenzione sia da parte dei teorici dell'epoca che da parte dei moderni musicologi, quello che concerne compositori come Sammartini, Brioschi e Galimberti comincia solo ora ad essere guardato con la dovuta attenzione. Prima di intraprendere una qualunque discussone sul tema e, nella fattispecie, prima di redigere una guida all'ascolto, occorre insomma intendersi sui termini e stabilire alcuni accordi con il lettore.

Per definire il nuovo stile dei compositori milanesi degli anni '30 del XVIII sec. adotterò il termine esteso di "classico". Nel farlo ho piena coscienza di accorpare musiche e autori molto lontani tra loro stabilendo due orizzonti temporali, Beethoven e Brioschi, che paiono separati da distanze siderali (pur essendo cronologicamente posti a una sola settantina di anni di distanza) ma non vale forse lo stesso per Monteverdi e Bach, quando li si fanno rientrare nella categoria "barocco"? È solo una questione di abitudine, dunque, e noi operiamo la nostra scelta con la piena coscienza di tutte le imperfezioni che questa porta con se, ma anche con lo scopo di avere termini chiari e il più possibile condivisi su cui fondare un discorso organico. Quanto al lessico formale mi baserò su termini condivisi quali Esposizione, Ripresa, Progressione, ecc. cercando di usare con parsimonia il termine "Tema", nella convinzione che questi possa essere attribuito solo ad eventi dalla chiara connotazione melodica o ritmica. Vi sono poi stilemi e figure retoriche sui quali ho deciso di avere un approccio non problematico onde evitare l’inevitabile empasse che un approccio filologico integralista genererebbe. Mi avvarrò dunque senza troppe spiegazioni di termini che tradizionalmente la musica prende a prestito dalla retorica classica (come “Anabasi” e “Catabasi”) o di termini convenzionalmente usati da musicologi e studiosi per definire un nuovo stilema (come “Hammerstroke”). Ovviamente mi permetto questo approccio, che ho appena definito “non problematico”, nel contesto di una guida all’ascolto che deve avere lo scopo di dare in breve tempo all’ascoltatore gli strumenti per un ascolto di questo repertorio il più possibile consapevole e libero; in altri contesti più accademici adotterei le dovute attenzioni.

Vediamo ora di seguire la discontinuità stilistica che ha dato i natali al nuovo genere “classico” e di coglierne i tratti, cerchiamo poi di definire i tratti stilistici peculiari di Brioschi attraverso esempi tratti dalle sinfonie contenute nel presente volume. Precisiamo subito che data la vastità dell’argomento e la brevità dello spazio a disposizione, dovremo ricorrere ad una radicale semplificazione, ma cercheremo di rendere comunque giustizia ai concetti che stanno alla base della nostra convinzione.

Nei primi anni del ‘700 Milano viene occupata dagli austriaci. In pochi anni la struttura sociale della città cambia radicalmente, l’economia conosce un grande risveglio, la classe borghese si estende e si arricchisce. Cambiano le occasioni del far musica e proliferano i salotti e le accademie. Cambia di conseguenza la natura stessa della musica, poiché un pubblico nuovo chiede musica nuova (qualcosa di simile è forse accaduto con la nascita e la diffusione del Pop nello scorso secolo). Occorre, anzitutto, offrire un genere fresco e ottimista, tipico delle fasi di cambiamento che accompagnano le grandi rivoluzioni culturali. La scomparsa delle tonalità minori è forse il tratto stilistico che più nettamente segna la discontinuità tra barocco e classico. Queste vengono di solito relegate a qualche movimento lento (vedi i secondi movimenti delle due Sinfonie in fa, di quella in sib, di quella in do e di quella in mib nella presente raccolta), cosicché l’affetto da esse creato si risolve nell’ultimo movimento, che in Brioschi ha sempre un carattere gioioso, giocoso e disimpegnato. La trama armonica si dirada lasciando spazio alla percezione di giochi di tipo “formale”, come ripetizioni, asimmetrie, interruzioni, talee ed enjambement, tra sezioni e frasi. Il contrappunto, da contenuto centrale, diviene un elemento semantico del discorso. Si diffonde, per esempio, il concetto di fugato inteso come richiamo alla fuga e alla severità del mondo austero nella quale questa si esprimeva. Esso, generalmente, precede di poco la solare ri-affermazione del tema iniziale o ripresa (va detto che Brioschi non si avvale praticamente mai di questo espediente retorico). Altro aspetto legato al contrappunto è che questi abbandona la sua funzione di motore del movimento armonico e comincia ad assumere quei tratti di “texture” che gli rimarranno propri per molti anni a venire. Vale a dire che la sovrapposizione delle linee assume un carattere estetico a se stante e si snoda lungo le colonne portanti dell’impianto armonico senza influenzarne più di tanto la direzione, un po’ come certi elementi floreali avviluppano e nascondono le colonne nell’architettura neoclassica. Rendono bene l’idea il primo movimento della sinfonia in fa maggiore [16] e il terzo di quella in mib [21]. Il risultato è che, liberato dal giogo dell’armonia, il contrappunto diviene veloce, frenetico e e può abbandonarsi ad un invenzione continua e libera da concetti come imitazione, soggetto, controsoggetto, ecc....

Viceversa la condotta armonica diviene centrale e fondante al punto che la nuova forma che diverrà l’anima del classicismo, la Forma Sonata, si identifica in primis nelle sue istanze armoniche. Ovviamente l’impianto formale delle sinfonie di questa raccolta (e anche delle altre sinfonie di Brioschi di nostra conoscenza) non può essere ricondotto alla Forma Sonata, se non altro perché mancano i concetti di primo e secondo tema, ma possiamo ravvedere in una opera matura come il primo tempo della sinfonia in mib [19], un interessante esempio della necessità di “tematizzare” le aree armoniche una volta che queste abbiano raggiunto una certa estensione. In questa sinfonia più che in altre possiamo riconoscere nelle prime 5 misure [19.01] [00’00] [b. 1] una sorta di “primo tema”. L’arpeggio ascendente, subito ripetuto, fiorito da note di passaggio e poi declinato sulla dominante ha sicuramente il carattere lapidario di un exordium classico così come il momento dal carattere marziale dato da una nota ribattuta con ritmo trombettistico, posta al centro della prima sezione, [19.04] [00’33] [b. 43] rimanda, sia per la posizione che occupa che per il carattere deciso, ad un idea di “secondo tema”. Inutile precisare che i due temi di cui sopra non incontrano alcuna elaborazione nello sviluppo limitandosi semplicemente ad essere “citati” nella sezione B: il primo tema nella Ripresa [19.12] [03’17] [b. 157] e il secondo poco dopo il ritornello [19.09] [00’00] [b. 107].

La figura di Antonio Brioschi sembra essere centrale nella genesi del nuovo stile strumentale sia per la diffusione che per l’estensione del suo catalogo. I manoscritti delle sue opere si trovano disseminati in tutto il mondo con una particolare concentrazione a Parigi, Praga e Stoccolma (città, quest’ultima, che ospita le fonti alle quali ci siamo ispirati per questo CD). Cinquanta sinfonie di sicura attribuzione e una ventina di opere dubbie, ne fanno sicuramente il più prolifico compositore di sinfonie del ventennio 1730-1750. La stima di cui godeva è attestata nella già citata lettera anonima dove le sue sinfonie sono definite “Angeliche, di sommo gusto”. Nella stessa lettera troviamo un’interessante considerazione di carattere stilistico. Vi si dice infatti: “…più impegnati fa che sieno tutti gli istromenti, che per contrario il Martino la maggior parte lo pone nella parte sola del primo violino”. Il Martino di cui si parla è Giovanni Battista Sammartini, di fatto il compositore più vicino a Brioschi sia dal punto di vista cronologico che geografico e stilistico, e questa osservazione mette in luce sicuramente il tratto più peculiare dello stile di Brioschi: l’impiego estremamente emancipato dei secondi violini. Il contrappunto tra le due linee dei violini non conosce confini di tessitura e ricorre continuamente all’incrocio tra le parti come elemento quasi psichedelico di “illusione tematica”. Il nostro orecchio è continuamente tratto in inganno dal seguire la linea superiore e alla fine crea una linea che non c’è nella realtà e che (considerata la disposizione tradizionale dell’orchestra con i violini opposti) passa continuamente da destra a sinistra.

Musica e Scienza

(articolo scritto per la rivista di astronomia "Le Stelle" nel 2011)

Da appassionato musicista e astrofilo, mi sono sempre domandato come conciliare l’arte e la scienza; o per meglio dire, come unire in un'unica grande “teoria unificata” l’attitudine olistica del mondo degli artisti e l’attitudine riduzionista del mondo degli scienziati.

L’esigenza di comporre musica e di studiare le composizioni altrui è sempre stata forte in me, e mi è sempre stato chiaro come, attraverso la musica, mi potessero arrivare “informazioni” di una qualità molto peculiare su una persona, su un’epoca, sull’evoluzione culturale della mia specie, sulle guerre, sulle conquiste, sulle sofferenze e sulle gioie dei miei simili; tutte informazioni che definirei “super-cognitive”. Potrei dire che ho imparato di più sulla rivoluzione francese studiando opere di Haydn, Beethoven, Cambini, Rigel, Miroglio, che non dietro i banchi di scuola. D’altra parte mi è sempre parso impossibile misurare, dimostrare, ripetere le mie esperienze e le mie asserzioni in campo artistico e, nel dialogo con amici scienziati, ero spesso costretto a fermarmi di fronte alla lapidaria conclusione che la musica fosse niente più che un effetto evolutivo secondario del linguaggio, una sorta di impiego residuo delle facoltà sintattiche. In quest’ottica l’antica scienza dei suoni ci potrebbe apparire non dissimile dalla superstizione, un inutile sistema di credenze che nasce, tuttavia, dalla sana facoltà umana di trovare connessioni e nessi tra fatti in realtà scollegati.

In una certa fase di questo percorso sono anche diventato un appassionato lettore di filosofi fisicalisti e comportamentisti (come Daniel C. Dennet), alla ricerca di una “riduzione” del fenomeno artistico e creativo in ambito neurobiologico, ma purtroppo, con tutta l’ammirazione che ho per il pensiero fisicalista, devo dire che le definizioni che essi mi hanno offerto paiono improbabili e povere a chi vive la musica come un importante mezzo di indagine del Mondo.

Insomma, due mondi che sovente si guardano l’un l’altro con interesse, come quello della musica e dell’astronomia, sembrano impossibili da ridurre ad un'unica teoria unitaria. Molti scienziati hanno un’idea abbastanza chiara di cosa sia la scienza; pochissimi musicisti dichiarano di avere un’idea chiara di cosa sia la musica (e, tra quei pochi, è difficile trovarne due che la pensino allo stesso modo). Il carattere ineffabile della musica è espresso bene nella paradossale frase attribuita a Frank Zappa: “Parlare di Musica è come ballare di Architettura”. La musica c’è, tutti possiamo farne esperienza, ma finora nessuno è riuscito a definirla in maniera soddisfacente.

Quando, una quindicina di anni fa, ho saputo che il famoso Wilhelm Herschel prima di assurgere a fama mondiale come astronomo, era un affermato musicista nella Londra degli anni ’60 del XVIII secolo, è scattata subito una forte simpatia, seguita dall’irrefrenabile curiosità di collezionare e studiare le sue opere. Herschel era uno scienziato moderno a tutti gli effetti; egli voleva vedere, conoscere e misurare. Per questo, invece di speculare a tavolino sulle teorie di altri speculatori, che a loro volta basavano la loro conoscenza sui filosofi greci e sui libri sacri (una deleteria catena di ipse dixit, che sovente portava a conclusioni fumose e ben lontane dal vero), egli impiegò tutte le sue risorse nella costruzione del più grande telescopio ottico dell’epoca. Questo gli permise di ampliare smisuratamente la dimensione dell’universo conosciuto e dei suoi fenomeni, descrivendo senza pregiudizi ciò che vedeva. Egli era molto più vicino alla mentalità di uno scienziato contemporaneo che a quella di certi teorici-mistici coevi; per questo trovavo affascinante che egli fosse prima di tutto un musicista!

Il progetto Herschel fu un ossessione per me fin dal 1996. Dedicavo spesso le mie giornate e parte delle mie vacanze a prendere contatti con direttori artistici, associazioni di astrofili, istituzioni scientifiche, biblioteche, riviste di astronomia e sponsor. La nota dolente fu proprio che nessuno sponsor sembrava disposto a scommettere su un progetto così atipico: chi sponsorizza concerti raramente si occupa di progetti scientifici e chi sponsorizza la scienza di solito non è interessato ai concerti. Il passo decisivo venne solo nel 2010, quando ebbi l’idea di rivolgermi alla rivista Le Stelle per la pubblicazione di un CD allegato alla rivista. Non un CD rom con effemeridi, o sofisticati programmi astronomici, ma un volume con Sinfonie inedite di Wilhelm Herschel, eseguite con strumenti originali. L’altra idea fu quella di avvalermi di un orchestra stabile che godesse già delle sovvenzioni sufficienti a produrre un concerto sinfonico senza ulteriore apporto di sponsor. All’uopo presi contatto con l’istituzione nella quale già da diversi anni lavoravo come direttore ospite: Milano Classica. Il passo successivo fu di trovare una sede adeguata. A riguardo un’idea ce l’avevo già... In pieno centro a Milano, facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici da tutto l’interland, campeggia solennemente uno dei luoghi simbolo dell’astronomia italiana: l’Osservatorio Astronomico di Brera. Questi è annesso ad un grande spazio verde, l’Orto botanico, ideale per eventi all’aperto. Così organizzai un incontro a quattro con Pasquale Tucci, direttore del museo astronomico di Brera, Gianluca Capuano, direttore artistico di Milano Classica, e Angelo Faggiano, direttore editoriale della rivista Le Stelle.

L’alchimia era perfetta e il progetto vide finalmente la luce! L’opera musicale di Herschel poteva vivere di nuovo e raccontare a noi musicisti e al pubblico contemporaneo ciò che un Astronomo del XVIII secolo non poteva esprimere attraverso le parole della scienza.

Ecco che, nel numero di novembre della nostra rivista, ancora una volta Astronomia e Musica vivranno compostamente sedute l’una a fianco all’altra, come nell’antico quadrivium, parlando due linguaggi diversi, ma, in qualche modo, complementari.

La ricostruzione comincia dall'arte

(articolo scritto per la presentazione del concerto dell'orchestra aquilana "Gli Archi del Cherubino" del 17 aprile 2009)

"Capita, quando si assiste a disgrazie su grande scala, come quella che ha colpito l’Abruzzo e quando si vedono i volti sofferenti di persone che hanno “perso tutto”, di sentirsi subito spinti alla mobilitazione, di pensare subito a cosa fare per dare il proprio contributo alla ricostruzione.

Se indaghiamo attentamente circa il significato della parola ricostruzione per noi fortunati che “abbiamo ancora tutto”, ci accorgiamo che questo termine passa attraverso una deformazione materialistica che ne altera fortemente il significato. Ci vengono subito in mente i mattoni, le case, i letti; bisogni cosiddetti primari che, nella fase acuta della tragedia, vengono spesso contrapposti a frivoli bisogni “secondari”.

La vera disgrazia sta proprio in questa contrapposizione. Così come vivere non è il contrario di sopravvivere, e essere felici e ispirati non è il contrario di essere sazi e soddisfatti; allo stesso modo ascoltare o fare musica non è il contrario di costruire una casa. Anzi, vorrei essere ancora più provocatorio: se troviamo la forza e il coraggio per ricostruire una casa è perché vogliamo ascoltare ancora musica, perché vogliamo scrivere e leggere poesie, perché vogliamo sognare ed elevare il pensiero; in una parola perché vogliamo vivere in quella cosa “inutile” che si chiama arte.

Quali sono dunque i bisogni “primari” dell’Uomo? Che senso avrebbe ricostruire le case senza questi nobili obiettivi?

Se assumiamo questa consapevolezza alla domanda “cosa posso fare per dare a coloro che subiscono una disgrazia ciò di cui hanno bisogno?” si affianca un’altra domanda: “cosa posso fare per dispormi a ricevere l’immensa ricchezza che coloro che hanno vissuto una simile rivoluzione personale possono donarmi?”

Judith Hamza e i ragazzi degli “Archi del Cherubino” stanno facendo qualcosa di straordinario, stanno dando un meraviglioso esempio a tutti noi: stanno cominciando la ricostruzione partendo dalla Musica e ci stanno dimostrando che l’Aquila non è crollata, perché la vera città dell’Aquila è quella che sta al di là delle sue case e delle sue mura. La Città dell’Aquila sta nella forza dei suoi abitanti, nella loro capacità di produrre e di donare bellezza. E’ per questo, e non per altri motivi, che ci accingiamo a ricostruire i muri e le case.

Con il concerto di venerdì 17 aprile, che si è svolto quando ancora la terra non aveva smesso di tremare, abbiamo partecipato alla testimonianza inconfutabile di questo fatto. Non esistono persone che hanno “perso tutto”, perché non c’è evento che possa togliere all’uomo anche solo un briciolo della sua libertà e della sua capacità di partecipare a quel misterioso, meraviglioso flusso universale che è la Musica.

Essere continuamente e profondamente testimoni di ciò è il più grande contributo si possa dare alla città dell’Aquila, ai suoi abitanti e a tutti coloro che, anche solo per un attimo, credono di aver “perso tutto”.

Che cos'è la sinfonia milanese?

Cosa intendiamo per Sinfonia Milanese?

Perché includere un autore come Fortunato Chelleri, che non lasciò traccia di sé a Milano, in una collana denominata “Archivio della Sinfonia Milanese”?

Diciamo innanzitutto che per Sinfonia intendiamo il genere musicale nato intorno alla fine degli anni 20 del XVIII secolo nel quale riconosciamo un vago delinearsi della cosiddetta “forma sonata”, unito a quella tendenza alla semplificazione ed esaltazione del “tema” e all’uso predominante delle tonalità maggiori che caratterizzerà tutta l’epopea classica.

La connotazione “milanese”, più che vincolarci ad un area geografica, si riferisce ad uno stile musicale ben preciso tipico si del Ducato di Milano, ma esportato ben presto in tutta Europa, tanto che potevano dirsi stilisticamente “milanesi”, sinfonie scritte a centinaia di chilometri da Milano, come nel caso di queste Six Symphonies Nouvelles.

Per spiegare meglio questa affermazione stabilendo un parallelo con un caso più vicino alla nostra sensibilità, possiamo guardare ai cosiddetti “generi” musicali come li intendiamo oggi; un esempio di genere musicale, legato ad una città (quindi abbastanza analogo al nostro caso) è quello del “New Orleans”. Nei primi decenni del secolo scorso, nel capoluogo della Louisiana si andava delineando questo stile musicale con tratti molto ben definiti; a tal punto che ben presto in tutti gli States (e verso il terzo decennio del secolo secolo anche in Europa) si cominciò a fare “New Orleans”. Ovunque nascevano gruppi di New Orleans, e si specializzarono in questo genere anche artisti che in Louisiana non ci avevano mai messo piede. Se oggi un discografico dovesse fare oggi una Storia completa del New Orleans o un “Archivio del New Orleans”, dovrebbe in qualche modo tener conto dell’espansione straordinaria conosciuta dallo stile originario, includendo anche esecuzioni di gruppi non originari della Louisiana.

E’ esattamente ciò che accade con il parmigiano Chelleri. Quando egli scrisse queste Sinfonie aveva già lasciato l’area lombarda da molti anni, e fino ad allora non aveva dato un così chiaro segno di appartenenza al genere milanese; ma nelle Simphonies Nouvelles il tributo a tale stile è evidente, suffragato anche da vere e proprie citazioni brioschiane e sammartiniane. Possiamo immaginare che Federico, Landgravio di Hassia e dedicatario della partitura, grande appassionato di musica strumentale abbia in qualche modo indirizzato l’autore verso lo stile milanese. Quel che è certo è che, grazie alla presenza fisica di Chelleri a Stoccolma tra il 1732 e il 1734, e grazie alle numerose esecuzioni di opere milanesi (testimoniate da una straordinaria quantità di manoscritti ritrovati), la corte di Federico divenne ben presto un importante luogo della “Sinfonia Milanese”. Possiamo sicuramente affermare che il classicismo svedese, che vide in Agrell un capostipite, nacque anche grazie all’impulso dello strumentismo milanese.

Il discorso, ovviamente, cambia dopo la metà del secolo, quando lo stile classico europeo, ormai solido e ampiamente diffuso, comincerà ad esercitare una forte influenza “di ritorno” sullo stile degli autori nord italiani. A quel punto la definizione “Sinfonia Milanese” che continueremo ad adottare per la nostra collana, avrà una connotazione più propriamente geografica che non stilistica.

Discorso conclusivo del Progetto Brioschi (2009)

Quando abbiamo iniziato le nostre ricerche su Antonio Brioschi, di questo compositore si sapeva solo che avesse scritto un gran numero di sinfonie in un epoca in cui solo una manciata di compositori si cimentava in questo nuovo genere. Non erano stati compiuti studi sulla prassi esecutiva delle opere della sua epoca e della sua area geografica. Nella maggior parte delle enciclopedie musicali mancava la sua voce, mentre nel Grove’s si potevano leggere, su di lui, solo poche righe. Esistevano solo un paio di registrazioni di sue opere in antologie senza alcuna distribuzione commerciale. Vi erano solo due pubblicazioni moderne di sue opere, una delle quali non più in commercio. Non si conosceva alcun documento in cui il suo nome fosse citato. Solo un paio di sue opere erano state restituite agli onori del pubblico.

Negli ultimi tre anni abbiamo costituito, insieme al dipartimento di musicologia dell’Università di Milano, un gruppo di ricerca che ci ha permesso di realizzare il primo convegno internazionale sulla figura di Antonio Brioschi, nonché di pubblicare, in edizione critica a cura di Casa Ricordi, 12 sue sinfonie. Ben due documenti in cui Brioschi viene citato come “famoso” e come precursore della Sinfonia e ispiratore di Stamitz, sono stati ritrovati, il che dovrà portare necessariamente ad un aggiornamento delle voci enciclopediche che lo riguardano. Sony ha dato il via ad una collana dedicata alla Sinfonia Milanese in cui Brioschi sarà l’autore più rappresentato, con ben quattro volumi, per un totale di 26 sinfonie. Le stesse sinfonie sono entrate stabilmente nel repertorio dell’orchestra Atalanta Fugiens, e continuano ad essere riproposte al pubblico contemporaneo con grande successo. Altre orchestre, tra cui “Gli Archi del Cherubino” dell’Aquila, hanno già inserito opere di Brioschi nel loro repertorio. Gli studi sulla prassi strumentale sono stati approfonditi, il che ci ha permesso di realizzare il primo seminario di prassi strumentale settecentesca del nord-ovest italiano, in seno al quale è stata eseguita in prima esecuzione moderna la Cantata ebraica per la quale Brioschi aveva scritto l’ouverture. Con la coproduzione di Fromwinter, stato realizzato un film che ha seguito i tre anni di studi e ricerche tra l’Italia e la Svezia (stato nel quale sono custodite la maggior parte delle opere di Brioschi). Quello che fino a tre anni fa era un autore sconosciuto anche ad un pubblico esperto, è ora entrato nella rosa dei compositori pubblicati, eseguiti e commentati, il che permetterà di apportare importanti contributi alla storia delle origini della sinfonia

Antonio Brioschi e il "nuovo" stile del settecento lombardo

(introduzione agli atti del convegno "Antonio Brioschi e il nuovo stile musicale del settecento lombardo")

Molti interpreti e strumentisti si sono cimentati, in questi ultimi 20 anni, nelle cosiddette “esecuzioni con strumenti originali”. Si definiscono “originali” gli strumenti che cercano, in qualche modo, di riprodurre la forma originaria di una certa epoca. Negli ultimi anni la ricerca sugli strumenti originali si è concentrata, in particolar modo, sul repertorio che si definisce comunemente “Barocco”, campo nel quale sono state fatte innumerevoli ricerche, con conseguenti progressi riguardo alle montature degli strumenti e alle modalità di esecuzione. Frutto di tali ricerche è stata sicuramente la conquista di una prassi esecutiva, se non “attendibile” (nel senso di: fedele ad una prassi originale che nessuno può conoscere...), perlomeno “coerente”, ovvero in grado di valorizzare e rivitalizzare al meglio il contenuto estetico/semantico dell’opera. Vorrei aggiungere a margine che in questa direzione dovrebbe essere interpretato il termine “filologico” applicato al campo musicale: un’esecuzione filologica è, a mio avviso, quella che, attraverso un’adeguata prassi strumentale, riesce a restituire coerenza al testo e non, come a volte si vorrebbe, quella che riproduce fedelmente le antiche modalità di esecuzione. Le discussioni su come si suonasse al tempo di Vivaldi, oltre ad essere inutili e sterili (visto che nessuno può saperlo) sono anche un devastante spreco di forze mentali che potrebbero essere applicate altrove.

Tra i musicisti che hanno partecipato alla sontuosa rinascita del repertorio “barocco”, favorita dalla moderna ricerca “filologica”, molti si sono trovati, ad un certo punto della loro vicenda artistica, a confrontarsi con un nuovo repertorio strumentale che, nei primi decenni del ‘700, andava delineandosi nell’Italia settentrionale e in particolare nell’area lombarda. Questo stile si sarebbe presto diffuso in tutta Europa. Mi riferisco alle opere di autori come Brioschi, Chelleri, Galimberti, Sammartini. Quello che si sono trovati a sperimentare gli interpreti, nel varcare tale soglia stilistica è stata la totale inadeguatezza per non dire inapplicabilità della prassi strumentale barocca, sulle opere dei nuovi autori; la nuova musica strumentale “soffre” quando le si applicano antiche modalità di esecuzione. Questo è il motivo principale che mi fa ritenere che il nuovo stile musicale (lo stesso che viene definito ora “galante”, ora “preclassico”, ora “rococò”) costituisca nell’ambito dello status musicale europeo di quegli anni una decisa discontinuità (discontinuità che può essere seguita nel suo propagarsi attraverso il continente fino alla seconda metà del ‘700, ovvero fino alla grande sintesi stilistica operata da Haydn e Mozart).

In particolare parlando dello stile di Brioschi, non è difficile cogliere alcuni tratti che, messi insieme, ci danno una chiara idea della sua fisionomia. La prima caratteristica che salta all’occhio, anche ad un semplice approccio visivo con la partitura, è una sorta di destrutturazione della frase; l’idea musicale nasce e si annulla continuamente in un flusso magmatico di movimenti ritmici sincopati, scale, acciaccature e rapidi collegamenti. E’ molto difficile “canticchiare” il tema di una sinfonia di Brioschi poiché solo a tratti tale tema diventa “melodia”. Le linee delle due parti di violino si accavallano e si intersecano continuamente in un gioco di ruoli che raramente sfocia nel contrappunto imitativo, mentre il più delle volte vede le singole parti mantenere una forte autonomia. La viola è quasi sempre indipendente dal basso, ma ne imita l’andamento. Si forma così un tessuto in cui, su una trama scarna, ma efficace nel tracciare il percorso armonico,  gli accenti e la struttura fraseologica che vede impegnati viole e basso continuo, si inserisce un ordito fitto, colorato, pieno di slanci e di sorprese condotto dalle due parti di violino. E quanto più la linea dei bassi è solida e lapidaria, tanto più le parti superiori possono “osare” nel loro sincopare, nascondere, eludere, scherzare.

Altra caratteristica lampante, che vale per tutti i compositori del primo ‘700 milanese, è la brusca, lampante, quasi provocatoria semplificazione armonica. Questa non è, a mio avviso, dovuta ad una scarsa perizia degli autori, ma alla volontà di comunicare in maniera diretta e immediata con gli astanti. Non dimentichiamo infatti che questa musica si rivolgeva ad un pubblico nuovo, in particolare borghese, che si affacciava proprio in quegli anni alla realtà dei concerti. Un pubblico, in un certo senso, poco avvezzo. Se il parallelismo che sto per fare non implicasse un forte accento sul consumo e l’intrattenimento sminuendo un po’ troppo l’aspetto del piacere intellettuale che c’è nello scrivere e nell’ascoltare questa musica, potremmo quasi dire che la sinfonia milanese svolgeva il ruolo di quella che oggi chiamiamo musica leggera.

Un effetto collaterale della semplificazione armonica è la trasparenza della struttura, sia a livello della frase, che a livello dell’intera opera; e nel momento in cui la struttura diventa trasparente e leggibile, diviene anche importante. E’, a mio avviso, in questi anni che si operano le prime importanti innovazioni sulla struttura musicale nella direzione della forma sonata. L’inserimento di una sezione, subito dopo il ritornello, in cui l’andamento armonico diviene ardito e il contrappunto si infittisce (una specie di parentesi in cui il compositore si permette di esibire la propria abilità alla maniera “antica” con fugati, inversioni e sovrapposizioni dei temi, prima di riprendere il tema iniziale) non può forse essere l’origine del cosiddetto “sviluppo” della Forma Sonata? E la progressiva crescita ed emancipazione tematica dell’area armonica “alla dominante” nel primo ritornello non è forse la premessa per parlare di un “Secondo Tema”? E’ grazie, in particolare, a queste due innovazioni formali che il respiro dei primi movimenti sinfonici di Brioschi cresce, fino a raggiungere durate vicine ai sei minuti (nelle sinfonie “milanesi” di Zingarelli degli anni ‘70, si sfiorano addirittura i dieci minuti).

Il virtuosismo compositivo delle nuove sinfonie milanesi, sta dunque nella ricerca formale, non più in quella armonica e contrappuntistica. Le forze che generano un nuovo stile musicale sono le stesse che spingono gli strumentisti ad un certo tipo di rapporto con lo strumento. Questo è, probabilmente, il motivo per cui la prassi esecutiva barocca, volta ad arricchire e variegare la linea, fin quasi a rendere impercettibile la struttura, mal si addice alla nuova musica.

L'artista senza volto e i volti senz'arte

(articolo per la rivista Odissea, 2006)

Stiamo per entrare in periodo elettorale, e chi ragiona come me soffre in silenzio. La politica dovrebbe essere il luogo primario dell’esercizio dell’altruismo, delle virtù civiche rivolte al benessere comune, più che all’ostentazione, subito sospetta, di qualità personali e di personali immancabili rimedi per il buon governo della cosa pubblica: servizi efficienti, snellezza delle procedure burocratiche eccetera…e così per le strade s’incomincia a vedere la fantastica giostra multicolore di manifesti impastati sui muri a centinaia e migliaia, con enormi ritratti di candidati che, pornograficamente, ammiccano sornioni cercando di rubarci qualche secondo del nostro frenetico vorticare, nella speranza di estorcerci un voto. Facce senza pensiero, senza storia, senza vita; convinte di poter riassumere, nella loro stolida, stropicciata bidimensionalità tutta la magnificenza di un programma elettorale che risolverà per sempre i nostri problemi. Quei musi sornioni non si rivolgono a noi in quanto Uomini – il loro progetto fallirebbe – ma in quanto schegge di un’umanità pecorona che cambia opinione se il sopraciglio è un po’ più alto, se il naso è incipriato, o se di sfondo c’è una libreria piuttosto che una bandiera o un crocifisso.

I volti senz’arte che invadono le nostre città sono convinti nemici dei contenuti: dietro la superficie c’è solo la colla dei manifesti. Tuttavia quel che ci sembra palese non lo è: se ad ogni elezione, puntualmente, i musi tornano a cercare il nostro sguardo è perché c’è qualcuno pronto ad accoglierli con benevolenza. Le statistiche elettorali non mentono: l’abito fa il monaco, anzi: l’abito è il monaco. Non possiamo negare questa drammatica realtà (anche se ci piacerebbe).

In questa città di inizio millennio distrutta da un materialismo senza cultura, da un estetismo senza bellezza, dal gossip, dai reality show, dove si regalano mille euro a chi ingurgita un lombrico vivo, o un stronzo secco davanti alle telecamere, ma dove non si trovano i soldi per la cultura, mi sono trovato ad accettare una sfida meravigliosa: far rivivere la musica di un compositore senza volto, senza biografia, senza aneddoti, ma artefice di alcune delle più belle sinfonie del primo Settecento.

Ho incontrato Antonio Brioschi un anno e mezzo fa, quando i Solisti Aquilani chiesero la mia collaborazione come direttore lasciandomi carta bianca sulla scelta dei pezzi. Pensai subito di fare un bel programma sui fratelli Giovanbattista e Giuseppe Sammartini in quanto rappresentanti della cultura milanese in Italia e all’estero (Giuseppe visse ed operò per la maggior parte del tempo a Londra), ma non volevo rimanere chiuso nell’ambito di una famiglia; volevo trovare qualche altro compositore milanese che avesse portato la sua arte in Europa. Grazie al mio amico cembalista Riccardo Doni, entrai in possesso di una bella raccolta dell’editore Garland che conteneva tre sinfonie di questo misterioso uomo. Fu il classico colpo di fulmine. La vivacità della scrittura, piena di fantasiosi barocchismi, inseriti però nella più classica delle strutture – la forma sonata -, il ruolo stupefacente svolto dai secondi violini, che non sono mai subordinati ai primi, ma che fungono sempre da pungolo per avviare, elaborare o interrompere il discorso, il gusto per la sorpresa, l’uso di bizzarrie armoniche quali, per esempio, la falsa relazione; tutte queste cose mi saltarono subito all’occhio, e capii che mi trovavo davanti ad un musicista di tutto rispetto. Va poi osservato che la prima sinfonia di Brioschi potrebbe risalire al 1731, aggiudicandosi il titolo di prima sinfonia (in senso moderno) della storia, ma questo record ci interessa già meno; i primati servono allo sport più che all’arte. Brioschi, che deve il suo cognome al piccolo comune di Briosco, dove potrebbe essere nato, era un personaggio di primaria importanza nella vita musicale milanese ed europea; lo confermano le decine di manoscritti ritrovati tra Praga, Darmstadt, Stoccolma e Parigi, che testimoniano una straordinaria diffusione della sua musica.

Di colpo una persona di cui non avevo mai sospettato l’esistenza entrò nella mia vita e si impose come solo le grandi personalità possono imporsi. Ordinai subito il volume di sinfonie, curato dall’ottima musicologa Mandel-Yehuda, e, immediatamente dopo averlo sfogliato, decisi di produrre una registrazione discografica monografica. Chiesi ed ottenni un contributo dalla Banca Popolare di Monza per finanziare un quarto del progetto. Gli altri tre quarti ce li abbiamo messi noi musicisti e il Comune di Opera.

Il sogno finalmente poteva avverarsi. Da allora la mia stima per questo autore è progressivamente cresciuta. Insieme alla stima, però, è cresciuta anche la gratitudine: Brioschi è un uomo senza biografia, senza volto; di lui non si sa nulla, neppure quando e dove sia nato e morto. Di lui conosciamo solo dei meravigliosi contenuti; non lettere, non aneddoti, ma contenuti dell’anima, poesia, musica, pensiero, emozioni. Grazie alla squisita discrezione di quest’uomo che non si fa vedere, ma che, generosamente, ci fa partecipi di un’arte  elevatissima, sto imparando qualcosa su me stesso e sul mondo.

Attraversando Milano guardo i primi faccioni ridenti che impestano i muri scrostati e il pensiero vola a Brioschi.

Volti senz’arte e arte senza volto. L’enigma dell’uomo che può umiliarsi fino a elemosinare consensi moltiplicando penosamente la più posticcia delle proprie espressioni sui muri di un intero stato; l’enigma dell’Uomo che può anche elevarsi, cercare il bello, dargli forma e materia per poi, crisalide, scomparire tra i solchi arati della storia.